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Appunti, abbagli, appigli e bisbigli: De Rosa, Pesenti, Pugliese, Scott

Posted on Nov 18, 2015 in Mostre, Tutte le attività

Inaugurazione: mercoledì 18 novembre 2015 ore 18,00

Mostra: dal 19 novembre 2015 al 27 novembre 2015

Orario: dalle 10,30 alle 13,30 e dalle 15,00 alle 18,00 (domenica chiuso)

Taccuini di

Donatella De Rosa – Iacopo Pesenti – Emanuela Pugliese – Thelma Scott

a cura di Roberto Casiraghi

introduzione di Alberto Pellegatta

 

La mostra, tutta rigorosamente su carta, inquadernata nei taccuini o srotolata e lavorata direttamente a parete, presenta un’animata antologia di sketch book, oltre a diversi lavori individuali al piano superiore. Nei taccuini, vero epicentro della mostra, troviamo tutta l’energia dell’artista da giovane, aperto al mondo, immerso nel viaggio e nella scoperta, nel superamento dei limiti. Pagine intime, certo, ma non confessionali. Un lavoro di alci e corna, di gatti nevosi a grafite slavata, di alpeggi assolati o caverne incupite nei grigi. Le immagini originali si separano, si moltiplicano in pallori o livide accensioni, fino a creare un bestiario incantato, traboccante di corrispondenze partecipate. In filigrana, attraverso cancellature, segni accarezzati o pressioni calcate, c’è il tentativo di costruirsi un’identità attraverso il linguaggio pittorico. Se pensavate che i neri fossero tutti uguali, vi dovrete ricredere. Allo stesso modo, il bianco solare si mangia le forme sottraendole alla mera rappresentazione. L’Atelier Cartesio si conferma così luogo ideale del confronto sull’arte.

 

Donatella De Rosa è nata a Frosinone nel ’91 e i suoi volti aureolati sono nostalgie narcotizzanti, frammenti alati che sembrano rimontare a Bosch. Il segno, impalpabile nei grigi raffinati o nelle eteree allusioni al panico, spinge l’opera oltre il pensiero, beata ma sofferta, senza salvezza ma almeno musicale. Tra nuvole in cui indovinare corrispondenze come da bambini, escono personaggi desolati nei loro alibi quotidiani, o frantumati, ma anche uccelli abbattuti e parti che si rendono indipendenti dal congiunto. Mosse e aspirate nel frottage, le sue figure indicano una possibilità e un senso, seppure provvisorio e imbottigliato. L’artista passa dalla biro al gesso, alla grafite, con la stessa disinvoltura con cui usa gomma, olio o pastelli a cera. I suoi uomini alati dialogano con insetti e misteriosi versamenti cromatici. Il paesaggio è sotterraneo, stratificato, è un luogo del dolore. Quando emerge il tormento anche le blatte scappano. Ma non mancano i momenti di sospensione lirica, con immagini intenerite nel pallore o metamorfosi fantastiche – come i volti che lasciano intravedere fascinazioni vegetali. Il segno a carboncino sa diluirsi come acquarello quando non incide nervosamente il supporto. Oltre ai taccuini propone un lavoro retroilluminato di disegni su diapositive, tre stampe laser rielaborate con matita calcografica per trasferimento e una delicata serie di cianotipi.

 

Iacopo Pesenti, milanese del ’90, è energico e insieme pacificato, fiducioso nel segno e raffinato fino alla disinvoltura. Ci propone visioni disperate, ruvide tensioni che tormentano la carta, ma anche aperture ariose. Nei taccuini c’è una continua verifica dei risultati raggiunti e c’è il frammento spontaneo. L’artista ha smontato il proprio lavoro per eliminare i residui narrativi, per scomporre la figura e spingere lo sguardo a intuizioni subatomiche. L’errore, se non addirittura ricercato, diventa un valore aggiunto, come un imprevedibile sviluppo della vita. La figurazione è asciugata al massimo e i segni sono parti di un ragionamento in raffreddamento. L’angoscia e la dispersione contribuiscono allo spaesamento. L’impronta, incisa in punta di pennino, chirurgica e sanguigna, stilizza le situazioni con asettico distacco, come nei neri fitti da cui emergono i riflessi della speranza. Dall’esattezza miniata del dettaglio architettonico alla furia di certe bestie nere, alla lirica di tentazioni più grafiche e filosofiche, il protagonista è sempre un senso di profonda partecipazione al mondo, non è mai fredda congettura. Il colore (violento o acquerellato) diventa carattere corale e allusione. L’artista ci presenta le forme del movimento e della velocità, le forme primitive, da incisione rupestre o incubo infantile. Dalla grafite alla penna a gel, la figura è indagata in diverse soluzioni formali per trovare il proprio assestamento. Fiducioso nell’intuito, Pesenti crede in «uno sviluppo lussuoso della scarsità – non nella composizione, ma nell’approccio». E deve compiere un sacrificio, farsi da parte, divenendo «un filtro attraverso cui la vita possa fluire». Alle intuizioni dei taccuini, il pittore associa due carte autonome e una serie di piccole sculture in carta – microbi laccati o animaletti degli abissi che sembrano animati da un senso di fragile precarietà.

 

Emanuela Pugliese, milanese del 92, coltiva con dolcezza due ossessioni: i gatti e i libri. Per lei, amante della letteratura («quasi che senza libri e gatti potessi scomparire»), gli elementi fisici come il vento possono cambiare stato e diventare solidi. Nei suoi lavori si avverte la presenza di qualcuno che forse se n’è appena andato o la particolare calma di un’attesa. Sono immagini che ignorano volutamente la morte come gli animali, opere di svenimento e ombre: «il lavoro del poeta non consisteva nella poesia ma nell’invenzione di ragioni perché la poesia fosse ammirevole». I mostri sono solo uno degli ingredienti. Il suo segno, pulitissimo, disinfettato e minuto, intenerito ma ammiccante, diventa fantasmatico e trasforma le volpi in stelle. Il senso di stesura del colore differenzia la materia, la prospettiva, le profondità. La visione non è umana, tutt’al più felina, fatta di bagliori lampeggianti e lune disciolte, di profondità travagliate e affioramenti, di fondi che si impongono. L’arte si occupa così di tutto ciò che l’uomo non vede, il mistero di macchie e dettagli, che non può essere rappresentato ma compreso. Emanuela presenta anche i primi passi di una nuova ricerca sul movimento – deducendo dai video quei fotogrammi che l’occhio non percepisce, momenti di distorsione e metamorfosi.

 

Thelma Scott, infine, è nata a Genova nel 1992 e, come i suoi tre compagni di avventura studia all’Accademia di Brera. La giovane artista avanza in una fitta foresta di segni, tra emersioni sofferte e ariose campiture. Le sue carte lasciano partecipare persino la parete su cui vengono lavorate, attraverso un delicato lavoro di frottage. La sua ricerca parte dagli oggetti quotidiani e dalle forme primarie per arrivare al mistero fragile della loro complessione – nei quaderni del disegno ma anche nelle polaroid e nei collage fotografici. C’è tutto il senso del movimento nei suoi studi anatomici. Lavori spesso così fisici da sembrare studi per sculture.

Una ricerca dell’origine che non a caso si concentra sulle ciglia dei batteri. Il gesto fiducioso trova la forma, la sospende, la abolisce. Le figure umane diventano unità del discorso poetico, in un nuovo assemblaggio. Abile nell’utilizzo del materiale di scarto come il nastro adesivo, gli spilli o gli elastici delle micro sculture, le sue opere hanno un’identità provvisoria che sembra richiamare i versi di Giancarlo Majorino: «in una forma leggera / piccolo tondo scavato / con questo aiuto di carta / nella mia mente d’amore».

Alberto Pellegatta

 

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